Si è parlato del più grande
fatto sportivo di sempre.
Eppure il trionfo del
Leicester City nella Premier League ha qualcosa di assonante con un evento che
molti italiani over 50 sicuramente ricordano.
Contro ogni pronostico una
squadra che l’anno precedente si è salvata per il rotto della cuffia, ha vinto
il titolo in uno dei campionati più “democratici” ed avvincenti d’Europa.
Il Leicester ha trionfato
attraverso un gioco semplice, fatto di passaggi in verticale e veloci
ripartenze. Poco possesso palla, molta corsa e davanti un attaccante assatanato
che si butta su ogni pallone come se quella fosse l’ultima azione della vita.
Sarà: ma questo tipo di
football ricorda molto l’italianissimo “catenaccio”, con il quale la nostra
nazionale ha inferto delle feroci stilettate a compagini molto più quotate.
Con questo modulo, nel 1982,
l’Italia di Bearzot diventò Campeon del
Mundo.
Solo assonanze?
Claudio Ranieri è testaccino.
Per gli abitanti, Testaccio
è una sorta di città nella città. L’origine del nome parrebbe essere derivata
da Mons Testaceus, ovvero il monte
dei cocci. Una collinetta di 35 metri composta da detriti di anfore rotte di
epoca Romana. Forse, in qualsiasi altro
paese del mondo, i musei farebbero a gara per accaparrarsi quei reperti.
Agli albori della storia
unitaria, venne edificato il Mattatoio, che cambiò l’architettura (anche
sociale) del quartiere. Con il cosidetto “quinto quarto” della macellazione (in
pratica: gli scarti) i testaccini inventarono una cucina meravigliosa ed unica,
elevando alimenti di una estrema povertà ad opera d’arte del gusto.
Ranieri, evidentemente,
questa creatività e questa sensibilità le ha nel DNA.
È riuscito a far ascendere
al trono d’Inghilterra una truppa di sconosciuti e di scarti di altri club
applicando uno dei principi cardine del cosiddetto gioco all’italiana. Primo: non prenderle. Risultato: seconda
miglior difesa dell’intero torneo ed una secchiata di vittorie sofferte per
1-0.
Gli italiani, quando devono
tutelare i propri interessi, sanno essere carogne:
Nel 1882 l’Italia siglò con
Germania ed Austria la Triplice Alleanza. Il patto avrebbe vincolato il paese
ad entrare in guerra qualora una della altre nazioni firmatarie fosse stata attaccata.
Nel 1914, dopo l’attentato di Sarajevo, l’Italia prima sfruttò l’art. 4 del
trattato per dichiarare la propria neutralità, poi si alleò con Francia e Gran
Bretagna, che avevano fatto abbondanti promesse territoriali.
Ci riprovò (con risultati
ben più modesti) trent’anni più tardi:
dopo l’8 settembre il neonato Governo Badoglio fece di tutto per farsi
accettare dagli Alleati come paese belligerante.
Ma Inglesi ed Americani non si fidavano degli
italiani (che, tanto per cambiare, avevano tradito il patto che li legava
all’alleato tedesco), e li tennero in un angolino.
Ci vollero la forza ed il
carisma di De Gasperi per far accettare nuovamente il nostro paese nel consesso
del mondo democratico.
Ranieri, conscio dei limiti
tecnici della sua squadra, si è protetto con l’unico modulo che poteva esaltare
le caratteristiche della sua pattuglia: ha lavorato per creare un gruppo di
ferro. Ha inculcato una mentalità vincente: nessuna paura, lottare uniti fino
allo stremo: non passa lo straniero!
Il Leicester non crea gioco,
ha vinto sfruttando quello degli avversari.
Bearzot era friulano.
Se fosse nato dieci anni
prima, sarebbe stato cittadino dell’Impero Asburgico.
È ostinato: nel 1982 si
porta al mondiale spagnolo Paolo Rossi, cha ha disputato una manciata di
partite dopo una squalifica di due anni.
Quando l’Italia, dopo una
prima fase disastrosa incrociò l’Argentina campione in carica, e soprattutto il
più grande Brasile di sempre, votato a passeggiare fino alla vittoria finale, i
più avrebbero voluto un pallottoliere per tenere il conto dei gol subiti.
L’Italia aveva passato il
turno per uno striminzito golletto rifilato agli sconosciuti camerunensi
(lasciamo perdere tutta la dietrologia).
Bearzot aveva però un gruppo
unito di scherani che lo avrebbe seguito ovunque. Molti di quei 22 atleti
avevano nei confronti del C.T. un debito di riconoscenza. Erano anche uomini
dai solidi principi morali e con ammirevole onestà intellettuale; non ebbero
nessuna difficoltà a compattarsi dietro il loro mentore e a seguirne la filosofia.
Anche dopo le prime disastrose apparizioni.
Ma gli italiani riescono ad
essere cinici al di là dell’immaginazione.
Contro l’Argentina l’Italia
non gioca.
Semplicemente impedisce agli
esterrefatti gauchos di giocare.
E poi li tramortisce con un uno-due
micidiale.
E’ una vera e propria
vigliaccata: gli argentini, beffati, sono anche derisi.
L’arbitro, il rumeno Rainea,
perdona le entrate primitive di Gentile su Maradona, ma non quella di Gallego
su Tardelli. Un minuto dopo aver accorciato le distanze, l’Argentina si ritrova
in dieci.
Possiamo solo immaginare la
quantità di paroline che i nostri cugini (eh si, cugini dal momento che più del
50% degli argentini riconosce una qualche origine italiana), carognoni anche
loro e pieni di livore, hanno riservato alla terra dei loro avi. In primis Menotti
(toh, guarda il cognome), il loro C.T.
Contro il Brasile, in
teoria, non c’è partita.
Loro sono i predestinati.
I brasiliani ballano samba,
ma forse hanno sottovalutato quel fantasma di calciatore che fino ad allora ha
trottato in campo senza produrre nulla di concreto.
Paolo Rossi per i verdeoro,
deve essere un po’ MastroTitta.
Il celebre personaggio del Rugantino è in realtà esistito veramente. Nelle sue
memorie, egli afferma di aver mazzolato molti condannati.
La mazzolatura era forma di
condanna a morte molto cruenta. Chi volesse saperne di più può trovarne una
descrizione al capitolo XXXV del “Conte di Montecristo” di Dumas. Ma non in
quello tradotto a firma di Emilio Franceschini, pseudonimo di non si sa bene
chi, che ha censurato e modificato il testo originale.
Nella descrizione del
romanziere francese, il condannato viene colpito alla tempia da una grossa mazza;
quando cade il boia gli piomba addosso, gli apre la gola con un coltello ed
inizia a saltargli sul ventre con i piedi per farlo morire dissanguato.
I brasiliani devono aver
provato sensazioni simili quando Rossi, per tre volte si è trovato solo davanti
al portiere (in verità non un gran che) ed ha affondato senza pietà il coltello
nel ventre molle della difesa.
Il terzo gol, quello
decisivo, è in questo senso un capolavoro di impudenza: tocco beffardo da tre
passi dopo una serie di carambole.
Gentile fu primitivo con
Zico tanto quanto lo fu con Maradona: la maglia numero dieci strappata ha fatto
il giro del mondo insieme al volto del difensore, ricciolo mediorientale e
sguardo perso ad affermare: “chi, io?”.
Probabilmente per molti anni
Pablito ha dovuto rinunciare ad andare in Brasile.
Gianni Brera disse che
l’Italia era squadra femmina e che per esaltarsi doveva essere aggredita perché
non in grado di costruire gioco. Ed aveva ragione da vendere. Ma questo
rappresenta anche una caratteristica del nostro popolo.
Nel secolo appena trascorso
si ricordano due tragiche aggressioni degli italiani. Il 28 ottobre 1940 le
truppe del Regio Esercito di stanza in Albania decisero di attraversare il
confine e di “spezzare le reni all’Epiro”. Solo che i greci non avevano nessuna
intenzione di farsele spezzare, le reni. Nell’aprile del ‘41 l’esercito tedesco
intervenne in massa togliendo le castagne dal fuoco. Non contento della figura
rimediata, il Duce decise di andare anche in Russia, nonostante il governo
nazista avesse avuto l’accortezza di informare Mussolini dell’Operazione
Barbarossa (l’invasione dell’Unione Sovietica) solo la mattina del 22 giugno
1941, cioè a giochi fatti. Il messaggio poteva essere interpretato così: se i
Greci ti hanno riempito di schiaffi, è meglio che con il gigante russo non ci
pensi nemmeno, altrimenti finisce in polpette.
Ma il Duce era il Duce: a
questo punto è meglio lasciare la parole a chi queste cose le ha vissute in
prima persona. Mario Rigoni Stern, “Il sergente nella neve” (esiste una
splendida trasposizione teatrale di Marco Paolini); Giulio Bedeschi, “Centomila gavette di
ghiaccio”.
Quando gli italiani devono
difendersi, invece, hanno pochi rivali: la guerra partigiana e la lotta al
terrorismo politico negli anni 70-80 insegnano.
Col Manchester City, Ranieri
ha eseguito il suo capolavoro.
Robert Huth, difensore,
rifila due gol alla difesa del City, che in estate era dato come uno dei
candidati al titolo finale. Per i Citizens essere sconfitti in casa ad opera di
un marcantonio dai piedi ruvidi, deve essere stato un colpo al cuore. Gli
ultimi ad abbassare le armi sono stati quelli del Tottenham. Secondo la
prestigiosa Deloitte & Touche la
squadra del sobborgo londinese è tra le prime per fatturato nell’intero
panorama del Regno Unito. Devono aver rosicato non poco a doversi arrendere a
degli sconosciuti provincialotti!
Ma le analogie non sono
finite.
I portieri, Kasper
Schmeichel e Dino Zoff, sono entrambe “figli di …”.
Il primo, dopo aver vinto il
campionato si è liberato dalla scomoda etichetta di essere il figlio di un
campione straordinario.
I tifosi italiani, perfidi oltremodo,
Zoff se lo ricordavano per le papere (presunte) durante Olanda-Italia del 1978.
Nel 1982 aveva 40 anni (moltissimi) ed era dato per bollito. Quindi, “figlio
di…”, all’epoca, non era proprio un complimento. Zoff si riconciliò con la
nazione quando riuscì a fermare un colpo di testa velenoso del brasiliano Paulo
Isidoro a non più di dieci – dodici millimetri dalla linea di porta. Mancavano
due minuti alla fine della partita e quella parata valse per il Mondiale quanto
la tripletta di Rossi.
Bearzot aveva una difesa
rocciosa: Gentile, Cabrini, Collovati e Scirea non temevano nessuno
Ranieri si è trovato Morgan,
Huth e Schlupp.
Intendiamoci: altra pasta
dal punto di vista tecnico, ma stessa disciplina tattica.
Bearzot aveva Tardelli ed
Oriali in mezzo al campo. Il primo non smetteva mai di correre, il secondo
recuperava migliaia di palloni. Al punto che Ligabue gli ha persino dedicato
una canzone.
Se non giocava Oriali, ci
pensava Marini dal piede ruvido.
“Pinna d’Oro”, così era
chiamato il centrocampista, passò all’Inter di Fraizzoli come gadget attaccato
al promettente attaccante Libera che il club neroazzurro, nel 1975, aveva
appena acquistato dal Varese. Libera finì nel dimenticatoio in un battito
d’ali, Marini divenne Campione del Mondo.
Marini è bassaiolo di Lodi.
A quelle latitudini la piana è poetica d’autunno, quando al mattino la nebbia
ristagna al di sotto di un solicello pallido, e d’estate, quando i campi di
mais riempiono tutta la campagna. La gente di Lodi, come tutte le genti di confine,
è un po’ a metà: pragmatica come i Lombardi, ma carica di umanità, come gli
Emiliani.
Ranieri ha Kanté e
Drinkwater: il primo non finisce mai la benzina, il secondo è sempre in
mischia.
Bearzot aveva Bruno Conti,
burino di Nettuno cresciuto a pane e baseball, ed Antognoni ad inventare;
Ranieri ha Mahrez, burino di Sarcelles, ed Albrighton .
In attacco, Bearzot aveva
Rossi, Graziani ed Altobelli; Ranieri ha il tarantolato Vardy, Okazaki ed
Ulloa.
Per compiere un’impresa
bisogna avere dei valori, disciplina e senso della misura. Quando questo mix di
spezie si incontra, allora tutto è possibile. Bisogna solo catalizzare il tutto
con una buona dose di sfacciataggine e cinismo. Ed in fatto di carognaggine gli
italioti sono maestri.