domenica 29 maggio 2016

Gli italiani, quando vogliono, sanno essere carogne.

Si è parlato del più grande fatto sportivo di sempre.
Eppure il trionfo del Leicester City nella Premier League ha qualcosa di assonante con un evento che molti italiani over 50 sicuramente ricordano.
Contro ogni pronostico una squadra che l’anno precedente si è salvata per il rotto della cuffia, ha vinto il titolo in uno dei campionati più “democratici” ed avvincenti d’Europa.
Il Leicester ha trionfato attraverso un gioco semplice, fatto di passaggi in verticale e veloci ripartenze. Poco possesso palla, molta corsa e davanti un attaccante assatanato che si butta su ogni pallone come se quella fosse l’ultima azione della vita.
Sarà: ma questo tipo di football ricorda molto l’italianissimo “catenaccio”, con il quale la nostra nazionale ha inferto delle feroci stilettate a compagini molto più quotate.
Con questo modulo, nel 1982, l’Italia di Bearzot diventò Campeon del Mundo.
Solo assonanze?
Claudio Ranieri è testaccino.
Per gli abitanti, Testaccio è una sorta di città nella città. L’origine del nome parrebbe essere derivata da Mons Testaceus, ovvero il monte dei cocci. Una collinetta di 35 metri composta da detriti di anfore rotte di epoca Romana.  Forse, in qualsiasi altro paese del mondo, i musei farebbero a gara per accaparrarsi quei reperti.
Agli albori della storia unitaria, venne edificato il Mattatoio, che cambiò l’architettura (anche sociale) del quartiere. Con il cosidetto “quinto quarto” della macellazione (in pratica: gli scarti) i testaccini inventarono una cucina meravigliosa ed unica, elevando alimenti di una estrema povertà ad opera d’arte del gusto.
Ranieri, evidentemente, questa creatività e questa sensibilità le ha nel DNA.
È riuscito a far ascendere al trono d’Inghilterra una truppa di sconosciuti e di scarti di altri club applicando uno dei principi cardine del cosiddetto gioco all’italiana. Primo: non prenderle. Risultato: seconda miglior difesa dell’intero torneo ed una secchiata di vittorie sofferte per 1-0.

Gli italiani, quando devono tutelare i propri interessi, sanno essere carogne:
Nel 1882 l’Italia siglò con Germania ed Austria la Triplice Alleanza. Il patto avrebbe vincolato il paese ad entrare in guerra qualora una della altre nazioni firmatarie fosse stata attaccata. Nel 1914, dopo l’attentato di Sarajevo, l’Italia prima sfruttò l’art. 4 del trattato per dichiarare la propria neutralità, poi si alleò con Francia e Gran Bretagna, che avevano fatto abbondanti promesse territoriali.
Ci riprovò (con risultati ben più modesti)  trent’anni più tardi: dopo l’8 settembre il neonato Governo Badoglio fece di tutto per farsi accettare dagli Alleati come paese belligerante.
Ma  Inglesi ed Americani non si fidavano degli italiani (che, tanto per cambiare, avevano tradito il patto che li legava all’alleato tedesco), e li tennero in un angolino.
Ci vollero la forza ed il carisma di De Gasperi per far accettare nuovamente il nostro paese nel consesso del mondo democratico.

Ranieri, conscio dei limiti tecnici della sua squadra, si è protetto con l’unico modulo che poteva esaltare le caratteristiche della sua pattuglia: ha lavorato per creare un gruppo di ferro. Ha inculcato una mentalità vincente: nessuna paura, lottare uniti fino allo stremo: non passa lo straniero!
Il Leicester non crea gioco, ha vinto sfruttando quello degli avversari.

Bearzot era friulano.
Se fosse nato dieci anni prima, sarebbe stato cittadino dell’Impero Asburgico.
È ostinato: nel 1982 si porta al mondiale spagnolo Paolo Rossi, cha ha disputato una manciata di partite dopo una squalifica di due anni.
Quando l’Italia, dopo una prima fase disastrosa incrociò l’Argentina campione in carica, e soprattutto il più grande Brasile di sempre, votato a passeggiare fino alla vittoria finale, i più avrebbero voluto un pallottoliere per tenere il conto dei gol subiti.
L’Italia aveva passato il turno per uno striminzito golletto rifilato agli sconosciuti camerunensi (lasciamo perdere tutta la dietrologia).
Bearzot aveva però un gruppo unito di scherani che lo avrebbe seguito ovunque. Molti di quei 22 atleti avevano nei confronti del C.T. un debito di riconoscenza. Erano anche uomini dai solidi principi morali e con ammirevole onestà intellettuale; non ebbero nessuna difficoltà a compattarsi dietro il loro mentore e a seguirne la filosofia. Anche dopo le prime disastrose apparizioni.
Ma gli italiani riescono ad essere cinici al di là dell’immaginazione.
Contro l’Argentina l’Italia non gioca.
Semplicemente impedisce agli esterrefatti gauchos di giocare.
E poi li tramortisce con un uno-due micidiale.
E’ una vera e propria vigliaccata: gli argentini, beffati, sono anche derisi.
L’arbitro, il rumeno Rainea, perdona le entrate primitive di Gentile su Maradona, ma non quella di Gallego su Tardelli. Un minuto dopo aver accorciato le distanze, l’Argentina si ritrova in dieci.
Possiamo solo immaginare la quantità di paroline che i nostri cugini (eh si, cugini dal momento che più del 50% degli argentini riconosce una qualche origine italiana), carognoni anche loro e pieni di livore, hanno riservato alla terra dei loro avi. In primis Menotti (toh, guarda il cognome), il loro C.T.
Contro il Brasile, in teoria, non c’è partita.
Loro sono i predestinati.
I brasiliani ballano samba, ma forse hanno sottovalutato quel fantasma di calciatore che fino ad allora ha trottato in campo senza produrre nulla di concreto.
Paolo Rossi per i verdeoro, deve essere un po’ MastroTitta.

Il celebre personaggio del Rugantino  è in realtà esistito veramente. Nelle sue memorie, egli afferma di aver mazzolato  molti condannati.
La mazzolatura era forma di condanna a morte molto cruenta. Chi volesse saperne di più può trovarne una descrizione al capitolo XXXV del “Conte di Montecristo” di Dumas. Ma non in quello tradotto a firma di Emilio Franceschini, pseudonimo di non si sa bene chi, che ha censurato e modificato il testo originale.
Nella descrizione del romanziere francese, il condannato viene colpito alla tempia da una grossa mazza; quando cade il boia gli piomba addosso, gli apre la gola con un coltello ed inizia a saltargli sul ventre con i piedi per farlo morire dissanguato.
I brasiliani devono aver provato sensazioni simili quando Rossi, per tre volte si è trovato solo davanti al portiere (in verità non un gran che) ed ha affondato senza pietà il coltello nel ventre molle della difesa.
Il terzo gol, quello decisivo, è in questo senso un capolavoro di impudenza: tocco beffardo da tre passi dopo una serie di carambole.
Gentile fu primitivo con Zico tanto quanto lo fu con Maradona: la maglia numero dieci strappata ha fatto il giro del mondo insieme al volto del difensore, ricciolo mediorientale e sguardo perso ad affermare: “chi, io?”.
Probabilmente per molti anni Pablito ha dovuto rinunciare ad andare in Brasile.

Gianni Brera disse che l’Italia era squadra femmina e che per esaltarsi doveva essere aggredita perché non in grado di costruire gioco. Ed aveva ragione da vendere. Ma questo rappresenta anche una caratteristica del nostro popolo.

Nel secolo appena trascorso si ricordano due tragiche aggressioni degli italiani. Il 28 ottobre 1940 le truppe del Regio Esercito di stanza in Albania decisero di attraversare il confine e di “spezzare le reni all’Epiro”. Solo che i greci non avevano nessuna intenzione di farsele spezzare, le reni. Nell’aprile del ‘41 l’esercito tedesco intervenne in massa togliendo le castagne dal fuoco. Non contento della figura rimediata, il Duce decise di andare anche in Russia, nonostante il governo nazista avesse avuto l’accortezza di informare Mussolini dell’Operazione Barbarossa (l’invasione dell’Unione Sovietica) solo la mattina del 22 giugno 1941, cioè a giochi fatti. Il messaggio poteva essere interpretato così: se i Greci ti hanno riempito di schiaffi, è meglio che con il gigante russo non ci pensi nemmeno, altrimenti finisce in polpette.
Ma il Duce era il Duce: a questo punto è meglio lasciare la parole a chi queste cose le ha vissute in prima persona. Mario Rigoni Stern, “Il sergente nella neve” (esiste una splendida trasposizione teatrale di Marco Paolini);  Giulio Bedeschi, “Centomila gavette di ghiaccio”.

Quando gli italiani devono difendersi, invece, hanno pochi rivali: la guerra partigiana e la lotta al terrorismo politico negli anni 70-80 insegnano.

Col Manchester City, Ranieri ha eseguito il suo capolavoro.
Robert Huth, difensore, rifila due gol alla difesa del City, che in estate era dato come uno dei candidati al titolo finale. Per i Citizens essere sconfitti in casa ad opera di un marcantonio dai piedi ruvidi, deve essere stato un colpo al cuore. Gli ultimi ad abbassare le armi sono stati quelli del Tottenham. Secondo la prestigiosa Deloitte & Touche la squadra del sobborgo londinese è tra le prime per fatturato nell’intero panorama del Regno Unito. Devono aver rosicato non poco a doversi arrendere a degli sconosciuti provincialotti!

Ma le analogie non sono finite.
I portieri, Kasper Schmeichel e Dino Zoff, sono entrambe “figli di …”.
Il primo, dopo aver vinto il campionato si è liberato dalla scomoda etichetta di essere il figlio di un campione straordinario.
I tifosi italiani, perfidi oltremodo, Zoff se lo ricordavano per le papere (presunte) durante Olanda-Italia del 1978. Nel 1982 aveva 40 anni (moltissimi) ed era dato per bollito. Quindi, “figlio di…”, all’epoca, non era proprio un complimento. Zoff si riconciliò con la nazione quando riuscì a fermare un colpo di testa velenoso del brasiliano Paulo Isidoro a non più di dieci – dodici millimetri dalla linea di porta. Mancavano due minuti alla fine della partita e quella parata valse per il Mondiale quanto la tripletta di Rossi.
Bearzot aveva una difesa rocciosa: Gentile, Cabrini, Collovati e Scirea non temevano nessuno
Ranieri si è trovato Morgan, Huth e Schlupp.
Intendiamoci: altra pasta dal punto di vista tecnico, ma stessa disciplina tattica.
Bearzot aveva Tardelli ed Oriali in mezzo al campo. Il primo non smetteva mai di correre, il secondo recuperava migliaia di palloni. Al punto che Ligabue gli ha persino dedicato una canzone.
Se non giocava Oriali, ci pensava Marini dal piede ruvido.
“Pinna d’Oro”, così era chiamato il centrocampista, passò all’Inter di Fraizzoli come gadget attaccato al promettente attaccante Libera che il club neroazzurro, nel 1975, aveva appena acquistato dal Varese. Libera finì nel dimenticatoio in un battito d’ali, Marini divenne Campione del Mondo.
Marini è bassaiolo di Lodi. A quelle latitudini la piana è poetica d’autunno, quando al mattino la nebbia ristagna al di sotto di un solicello pallido, e d’estate, quando i campi di mais riempiono tutta la campagna. La gente di Lodi, come tutte le genti di confine, è un po’ a metà: pragmatica come i Lombardi, ma carica di umanità, come gli Emiliani.
Ranieri ha Kanté e Drinkwater: il primo non finisce mai la benzina, il secondo è sempre in mischia.
Bearzot aveva Bruno Conti, burino di Nettuno cresciuto a pane e baseball, ed Antognoni ad inventare; Ranieri ha Mahrez, burino di Sarcelles, ed Albrighton .
In attacco, Bearzot aveva Rossi, Graziani ed Altobelli; Ranieri ha il tarantolato Vardy, Okazaki ed Ulloa.

Per compiere un’impresa bisogna avere dei valori, disciplina e senso della misura. Quando questo mix di spezie si incontra, allora tutto è possibile. Bisogna solo catalizzare il tutto con una buona dose di sfacciataggine e cinismo. Ed in fatto di carognaggine gli italioti sono maestri.

lunedì 25 aprile 2016

Non aspiro al martirio.

Sono Riformista e Luterano.
Pertanto, non aspiro al martirio.
Mi rifiuto di pensare che la vita sia solo una lotta fine a sé stessa, così come mi rifiuto di gettare intrepido il cuore al di là dell’ostacolo. Mi rifiuto di essere il Salvatore del Mondo o colui dal quale dipende il destino dell’umanità.
Mi rifiuto, in sostanza, di partecipare a quell’enorme banchetto di superficialità e pusillanimità che è diventata l’Italia.
Eh già, perché ultimamente per poter vivere e lavorare nel nostro paese devi strillare la tua diversità, ti devi opporre alla dilagante furbizia con l’osservazione pedissequa delle regole (previa scelta di quali siano le regole alle quali attenersi, per le altre chissenefregatantononmiriguardano). Devi essere idolo delle folle e Masaniello.
L’Italia è un paese dominato dalla cultura cattolica.
O meglio: è diventato un paese dominato da una certa interpretazione della cultura cattolica.
Quella individualista ed un po’ vigliacca nella quale l’ostentazione formale prende il posto dell’analisi razionale ed i valori non sono più tratti dall’animo, ma restano nell’ambito della pura manifestazione estetica.
E’ la sottocultura del Padrino, ovvero di colui che, magari, si macchia di crimini orribili ma è sempre in prima fila alla processione del Santo Patrono.
In sostanza: siccome va di moda manifestarsi contrito e ciò giova alla mia immagine, lo faccio.
Ma io sono Protestante (nel senso religioso del termine).
E credo nelle 95 tesi di Lutero, soprattutto nella prima parte della quarta, nella ventitreesima, nella ventiquattresima e nella trentanovesima.
Pertanto, oltre a non aspirare al martirio (che lascio volentieri a chi generalmente odia sé stesso), cerco di non farmi fregare.
Diffido quindi profondamente dai paladini della giustizia, sia perché la stragrande maggioranza di loro con il termine “giustizia” intende semplicemente “ciò che conviene a me”, sia perché per cultura e tradizione familiare, i capopopolo mi stanno pesantemente sul cazzo.
Ho scritto “capopopolo”, non “leader”.
Già. Perché un leader ha idee, carattere e dignità.
Un capopopolo no.


venerdì 11 marzo 2016

Omicidio stradale: tutti puniti .. o forse no!

La nuova legge sull'omicidio stradale sta ottenendo un'ampia fetta di consensi.
Ma per comprenderne la reale efficacia (o meglio INefficacia) e spegnere facili entusiasmi, è opportuno farsi due conti.
Ipotizziamo che Tizio si metta alla guida ubriaco fradicio, faccia una bella inversione di marcia all'incrocio ed uccida due pedoni. E poi, non pago, si dia alla fuga.
La nuova legge (quando verrà pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale), prevederà un periodo di reclusione di 18 anni; il fatto poi che Tizio abbia pensato bene di squagliarsi è considerata un'aggravante.
Facciamo che Tizio (su consiglio del proprio legale, ovviamente) si costituisca il giorno dopo. E' facile prevedere che in questo caso il legale richiederebbe il patteggiamento: a questo punto, per l'effettiva erogazione della pena, il giudice dovrà bilanciare tra le circostanze aggravanti (la fuga) e le attenuanti. Tizio è incensurato (anche perché oggi essere "censurato" è veramente un'impresa), reo confesso, costituitosi e, ovviamente, pentito (almeno ai fini processuali). E' facile poter prevedere che le attenuanti prevalgano sulle aggravanti. Conseguenza: sconto di pena di un terzo. Si passa quindi da 18 anni a 12. Su questa base si ha un'ulteriore sconto di pena di un terzo ai sensi del cosiddetto patteggiamento (art 444 del Codice di Procedura Penale). Totale: 8 anni.
Se poi Tizio non è stupido, si comporta bene: istanza al Magistrato di Sorveglianza e riduzione per buona condotta in ragione di 45 giorni ogni 6 mesi. Sconto totale: 720 giorni, cioè 2 anni quasi. Tizio, quindi, deve scontare una pena residua teorica di 6 anni. Teorica: perché dopo 2 anni circa è possibile chiedere l'affidamento ai servizi sociali per scontare gli ultimi 4 anni, e il beneficio dei domiciliari per gli ultimi 18 mesi. In sostanza: sui 18 anni teorici di carcere, alla fine Tizio ne ha scontati circa 2.
E non si sono volutamente considerati molti aspetti legati alla sostanza della legge quali, ad esempio, l’assoluta mencanza di qualsiasi riferimento al “dolo” per quanto riguarda la guida in condizioni alterate. Oppure la sproporzione colossale tra colpa (visto che si parla di “colpa”) e pena. Non si comprende infatti perché se uno gira con una pistola pensando di essere agile come Gary Cooper in “Mezzogiorno di fuoco” ed invece è ingessato come un impiegato con un po’ di pancetta e causa un morto, rischi solo da sei mesi a due anni. Fantascienza?  Nella stagione venatoria 2014/2015 ci sono state 88 vittime (tra morti e feriti) da parte di novelli Rambo in doppietta molti dei quali over65. La verità è che l’omicidio stradale è un reato che farà lavorare soprattutto gli avvocati e che non solo non renderà giustizia alle vittime, ma che ha tutta l’aria di essere inutile anche dal punto di vista della prevenzione.
Sarà pure catastrofismo, ma l'entusiasmo dei vari trombettieri che hanno trovato il Sacro Graal per stroncare il malcostume stradale, ha tutta l’aria di essere esagerato ed illusorio.

sabato 30 gennaio 2016

Rosario

Conobbi Rosario circa dieci anni fa.
Era insieme a me in crociera sul Nilo.
Rosario era un uomo piuttosto giovane, piccolo di statura e molto magro. Aveva i capelli lisci e neri, come gli occhi, ed un paio di baffetti che avresti potuto cancellare con la gomma. Mi colpivano la sua allegria ed il suo universo di uomo di mare, così lontani dai miei standard di cittadino della metropoli. Rosario era di Lampedusa; “là dove sgli scogli sembrano chiedere scusa al mare prima di immergersi” era solito dire.
Non so bene che tipo di attività svolgesse, so solo che lavorava a Roma. Malgrado la vita in città, il suo sguardo sembrava costantemente perso nelle profondità del mare. Chiacchieravamo spesso insieme: lui figlio di pescatori ed io figlio del cemento ci raccontavamo la nostra storia. Era piacevole sentire il caldo dell’Egitto smorzato dal soffio della brezza prodotta dalla navigazione ed ascoltare nel frattempo Rosario che raccontava, ridendo divertito, decine di storie sorseggiando una birra dietro l’altra.

Il giorno in cui accadde il fattaccio Rosario non si sentiva bene e si era chiuso nella sua cabina.
Avvenne tutto molto in fretta: la nave urtò uno scoglio, si piegò su un lato e iniziò a imbarcare acqua.
Arrivai alla cabina di Rosario giusto in tempo. Riuscii ad aprirla e lo tirai fuori di peso. Lo trascinai letteralmente fino al ponte, da dove ci lanciammo il più lontano possibile per non essere risucchiati dalla nave che affondava. Quando giunsi a riva Rosario era svenuto e tremava dal freddo.
Riprese conoscenza in una stanza d’ospedale. Mi guardò  e sussurrò: “Sei bravo. Ti ringrazio molto. Vedrai che un giorno riuscirò a sdebitarmi”.
Fu l’ultima volta che lo vidi. Tornai in Italia che lui era ancora ricoverato.


Quando l’anno scorso mi recai a Lampedusa, il Nilo, Rosario e la nostra brutta avventura erano solo immagini lontane. Ormai avevo qualche capello bianco e anche alcune piccole rughe. Stavo con una brava ragazza molto dolce che mi concedeva, vecchio vezzo, di fare da solo parte delle mie vacanze.
Quel giorno ero in immersione a circa 20 metri da solo. Avevo una certa esperienza di subacquea e mi era già successo di scendere in solitudine. Volli fare troppo. Entrai in una caverna molto piccola  e mi accorsi di non poter più uscire. Provai a districarmi per qualche interminabile minuto ma, col panico montante, riuscii a fare più danno che utile. Ad un certo punto sentii delle mani che dolcemente lavoravano alle mie spalle. Appena mi fu possibile mi liberai da quella terribile prigione e scorsi un uomo che mi stava aiutando a riguadagnare la superficie. Arrivai sulla spiaggia distrutto ed impaurito, mi tolsi l’ingombrante fardello mentre anche il mio salvatore  faceva altrettanto.
Si girò.
Rosario!! Era esattamente uguale a come me lo ricordavo: né un capello bianco né una ruga. Mentra mi sorrideva mi disse: “hai visto? Adesso siamo pari”.
Svenni sopraffatto dall’emozione.


Quando rinvenni, di Rosario nessuna traccia.
Il sole stava calando ed io ero stranamente riposato. Raccolsi le mie cose e tornai all’auto con mille pensieri in testa. Il giorno dopo mi mossi subito alla ricerca di Rosario. Chiesi ai pescatori, guardai nella rubrica del telefono: tutto vano.
Fu un vecchio che mi condusse a lui: me lo trovai finalmente di fronte.

Da una lapide di marmo bianca, vecchia di quasi sei anni, Rosario mi guardava attraverso una fotografia in bianco e nero. Mi parve persino di vederlo sorridere.

domenica 6 settembre 2015

Ancora sull'etimologia del nome "Caserta"

Come sottolineato dal professor. Guadagno, col quale non sempre sono stato d’accordo, ma qui aveva ragione, l’etimo “Caserta” non ha per nulla origine nel composto di “casa” (casale, gruppo di  case o villaggio) ed “irta”, e cioè “erta sul colle”, secondo le etimologie classicheggianti dei secoli XVII e XVIII, ma invece deriva da “casa” (casale, gruppo chiuso di case che gestiscono uno spazio) e “hirt”, ovvero hert, inglese moderno “herd”, che vuol dire “gregge”. Gli etimi longobardi son fondamentali per una ragione sostanziale: quando i Longobardi si stanziarono non avevano la stessa religione dei latini oltre alla diversa etnia e lingua; in pratica, si stanziavano ma si tenevano lontani dai latini, dai conquistati, e davano i loro nomi ai posti che occupavano. Per questo, sebbene la lingua italiana presenti radici germaniche sia d’origine gota che longobarda, i Goti han lasciato molto meno tracce rispetto ai Longobardi, per questa ragione.
Questo cambiò quando i Longobardi si convertirono al Cattolicesimo dal precedente arianesimo (seguivano Ario condannato da Costantino a Nicea nel 325 d.C.) e, soprattutto, dalla religione etnica che avevano. In tal modo l’ostacolo principale si tolse di mezzo e gradualmente i Longobardi furono assimilati dalla popolazione italiana (non è che fossero numerosissimi, tra l’altro). Ma i nomi che diedero ai luoghi rimasero. Per fare un esempio, Sala (provincia di Caserta) è nome longobardo (in Svezia c’è Upp-Sala, sopra (up) Sala, e ci sta pure Sala, più a sud di Uppsala). Da noi rimangono Briano, che ha tutt’altro etimo, e Tredici, che fa riferimento alla centuriatio. Come si vede, il territorio italiano è una stratificazione di molti e complessi successivi insediamenti che, per l’appunto, lasciano una traccia nella toponomastica.
Dunque “Caserta”, che non si trova affatto solo in Campania, ma ve ne sono molte in Italia, è una casale o una località che gestisce un luogo (casale, “frazione” come dicesi oggi) dove si mettevano gli armenti, il gregge. Questo è il senso del nome del luogo (“toponomastica”). E difatti, oltre a Caserta capoluogo di Provincia in Campania, ci sono varie altre Caserta con varianti di nome, come “caserte” o “casirte”. Ora, solo e soltanto qui, in Campania, la Caserta – che altrove rimane solo una “frazione”, un “casale” – diventa città, “urbs” (grosse difficoltà continua ad avere Caserta a passare da urbs a pienamente “civitas”, che non è una mera conurbazione urbana che vada oltre il livello del “villaggio”, ma implica invece una precisa identità da parte dei suoi abitanti ed un senso di “amicizia” fra di loro, ambedue molto carenti a Caserta, come si sa).
Perché, dunque, Caserta diventa “urbs”? Erchemperto (di Conca Campania) parla di un capo longobardo che lasciò Capua, da dove proveniva, per rifugiarsi in questa località detta “Casirte”, Caserta, Casa “irta” (ma in epoca longobarda già si stava perdendo la ragione della vera origine dell’etimo toponomastico - cum quadraginta primoribus, con quaranta “notabili”.
Di qui l’inserimento di una componente esterna che fece “lievitare” un casale verso la decisiva formazione di una “urbs”.
Andrea Ianniello


mercoledì 29 luglio 2015

Le 20 cosa da fare prima di morire

C’è un certo tipo di intellettuale che preoccupa.
È quello che vive di pura sapienza e che è totalmente distante dal mondo reale.
Sono in genere poco propensi ad uscire dalle proprie aule, così come hanno scarsa attinenza al confronto al di fuori dell’ambito puramente accademico. E, per quanto abbiano (ma non è detto!) competenze e conoscenze notevoli, sono totalmente impreparati (o quasi) in fatto di comunicazione.
 Qui da noi questo tipo di intellettuale si riconosce a prima vista. Ha idee sinistroidi, si identifica nelle idee di “Repubblica” e “L’Espresso”, è abituato a pensare di essere, unico esempio vivente nell’orbe terracqueo, direttamente sceso dal Monte Sinai con le Tavole della Legge. Pertanto il suo stile di vita è quello a cui dovrebbe ambire tutta l’umanità.
Ogni tanto, su qualche periodico o in qualche sito specializzato, qualcuno di questi intellettuali ritiene opportuno pubblicare una lista infinita di “cose assolutamente da fare prima dei 50 anni” o qualcosa del genere.
Intendiamoci: se qualcuno può saltare allegramente dall’Himalaya a Machu Picchu passando per la Galapagos (http://www.huffingtonpost.it/2015/07/27/25-cose-fare-vedere-prima-di-morire-telegraph_n_7878100.html?ref=fbpr), buon per lui. Ma coloro che si alzano alle 6 di mattina per andare a lavorare (magari con un contratto precario), che tornano a cosa dopo dieci ore di fatica e si trovano affitto o mutuo, la scuola dei figli, le bollette ecc. probabilmente si possono solamente incazzare pensando che al mondo esistano persone che guardano all’esistenza come una perenne vacanza.
E allora perché non produrre un decalogo (o meglio un “ventalogo” visto che è in venti punti) anche per i poveracci?
Ecco quindi, a portata di ogni tasca, le 20 cose da fare (e da vedere) prima di morire:
1)      Un  viaggio in metropolitana a fine luglio senza aria condizionata. Annusare gli afrori dei passeggeri è un’emozione senza eguali. Sfuggente ed eterea, la fetamma  vi lascerà letteralmente senza fiato!
2)      Osservare nello specchietto il conducente dell’auto che segue mentre si scaccola. Apprezzare le evoluzioni del dito allorquando si dipana  nella narice ed osservare lo sguardo estasiato di Trapanator che, al termine di una massacrante trivellazione, osserva i contorni della caccola è un’esperienza unica!
3)      Rosicchiarsi le unghie dei piedi. Evoluzioni da contorsionista degne dei più grandi artisti del circo, stanno alla base di questa difficile disciplina. Una scarica di adrenalina. Non per tutti.
4)      Imitare la partenza di una moto a rutti. Anni di preparazione, litri e litri di birra ed una concentrazione oltre ogni limite fanno sì che in questo gesto tecnico realtà e fantasia sembrino mescolarsi.
5)      Scoreggiare a comando. Superare il limite dal trash per piombare là dove neanche la natura osa. Aerare la stanza dopo le prove.
6)      Sciropparsi le puntate di Heidi tutte d’un fiato. Estatico. Se non dai fuori di matto, sei ad un passo dall’Illuminazione. O dall’arruolamento nelle SS.
7)      Frequentare la curva dei tifosi della Juve con un bandierone dell’Inter. Mai la natura potrebbe essere più selvaggia!
8)      Infilare gli stuzzicadenti nei citofoni. Apprezzare lo sguardo delle vecchiette tirate giù dal letto mentre ti smoccolano dietro vuol dire perdersi nell’immensità del creato!
9)      Farsi due settimane di fila a Cesenatico a metà agosto. Paesaggi da ecstasy e riposo (qualche volta eterno)!
10)  Ordinare una birra è gettarla in faccia a Mike Tyson dopo avergli urlato “sporco negro”. Un’avventura in confronto alla quale “il giro del mondo in 80 giorni” è come recarsi al bar a comprare le sigarette!
11)  Andare in una libreria con un paio di forbici e tagliuzzare le pagine di un libro a caso davanti al commesso. Così, tanto per vedere che effetto cha fa!
12)  Cercare di vendere enciclopedie in qualche quartiere malfamato di Rozzano popolato solo da semianalfabeti. Perché lì un libro è come una schioppettata: non si nega a nessuno!
13)  Presentarsi in banca a chiedere un mutuo con un gonnellino di foglie di banano. Perché le banche, quando devi chiedere un prestito, sono abituate a sparare qualunque tipo di cazzata pur di concedertelo solo al limite dell’usura. Da brivido mostrare il lato giullare!
14)  Rientrare al lavoro (per chi lo ha ancora) dopo le vacanze estive in giacca, cravatta, costume da bagno, pinne e paperella. Tanto il lavoro fa schifo, al capo interessa solo trombare la segretaria, lo stipendio non lo vedo da mesi. Da paura!
15)  Andare in un campo di addestramento dell’ISIS, beccare il primo terrorista ed apostrofarlo così: “Fratello mi daresti un’affilatina al coltello per l’arrosto?”. Così; per far capire loro che per conquistare Milano il problema è uscire dalla tangenziale nell’ora di punta!
16)  Urlare il sabato pomeriggio in Corso Buenos Aires “occhio ci sono gli ausiliari del traffico”. Un ingorgo di proporzioni bibliche!
17)  Fare il puttan-tour al solo scopo di raccogliere informazioni statistiche su servizi e prezzi. Perché l’informazione sta alla base di qualunque scelta consapevole!
18)  Guardare dal buco della serratura lo sgabuzzino delle scope con aria libidinosa. Si apprezza meglio quante persone non sono abituate a farsi i cazzi loro!
19)  Andare dal dentista dopo aver mangiato pesante. E vaffanculo, mi chiedi anche le mutande e mo’ ti sopporti la fiatella!

20)  Evitare di leggere articoli sulla 10 – 15 – 20 o 25 cose da fare prima di morire. Tanto ci si rode solo il fegato!

sabato 27 dicembre 2014

L’epoca di Costantino

Descrivere la vita e le opere di Costantino, il grande Imperatore Romano a cui si deve tra l’altro l’Editto di Milano, è cosa difficile.
Si tratta di indagare in una sorta di melma storica.
Ci prova Andrea Ianniello, autore di un’opera di recente pubblicazione (“L’Imperatore Costantino tra storia e leggenda” Giuseppe Vozza editore – Caserta) nella quale l’autore indaga non solo sul fatto politico relativo al grande Imperatore (poco per la verità, non si tratta di una biografia propriamente detta), ma anche sul controverso periodo nel quale ha operato e sui rapporti tra Impero e Cristianesimo che hanno segnato in maniera decisiva quell’epoca.

Il IV secolo dopo Cristo è fortemente caratterizzato da una profondissima crisi che segna la romanità tutta ed in particolare quella d’Occidente.
Crisi morale, originata dalla diffusione sempre più capillare del cristianesimo nell’Impero, così come momento di grossa sofferenza in campo economico. Inoltre l’esercito ormai non era più in grado di contenere la spinta delle popolazioni barbariche oltre i confini di Roma.
Piccolo inciso: nell’accezione più tradizionale, il vocabolo "barbaro" non significava affatto “poco evoluto” o, peggio ancora “incivile”. Deriva dal greco ed indica il termine con il quale le popolazioni elleniche definivano coloro che non parlavano correttamente la lingua, dunque gli stranieri. E proprio come “stranieri”, cioè estranei a tutto ciò che è romano, venivano percepiti i barbari dal cives del III – IV secolo d.C.
Ritornando ai fatti di Roma, verso la fine del III secolo Diocleziano, allo scopo di favorire il decentramento amministrativo e per ridurre il peso delle decisioni che fino a quel momento gravavano sull’unica figura dell’Imperatore, aveva sperimentato la cosiddetta “tetrarchia”.
Due Augusti e due Cesari si erano di fatto spartiti la responsabilità amministrativa di un Impero enorme dal punto di vista territoriale.
Il seme del Medioevo era stato piantato.
Il suo processo di germogliazione, invero lentissimo, si concluderà solo verso la fine del VI secolo, quando Gregorio Magno riuscirà a riorganizzare in senso Cristiano ciò che rimaneva delle vecchie forme amministrative dell’Impero Romano.
La Roma tardo imperiale è un mondo nel quale tutto è messo in discussione, in cui praticamente in nessun campo si hanno solide piattaforme culturali sulle quali poggiare pensiero ed azione. Dal punto di vista storico, l’operare in zone di confine, cioè in un ambito nel quale i cambiamenti sociali sono così repentini da far sbiadire il limite tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, crea i presupposti affinché emergano uomini dalla fortissima personalità ed in possesso di quella creatività e di quel coraggio utili a ricondizionare in maniera incisiva la società. Ovviamente questo è anche un rischio: ad esempio dalle sabbie mobili politiche e sociali che seguirono la fine della Prima Guerra Mondiale, emersero Mussolini, Hitler e Stalin, di sicuro figure fortemente carismatiche ma non proprio degli stinchi di santo!

Nel IV secolo spiccò Costantino. Pur agendo, come si è appena visto, in un momento storico di transizione, per molti versi è ancora un Romano nel senso classico del termine. Romana è la sua formazione, Romano è il suo modo di pensare e di agire, Romano è il suo fortissimo senso dello Stato. O meglio: dal punto di vista politico  è ancora un Romano.
Già, perché esiste un tarlo.
Questo tarlo si chiama Cristianesimo.
Ianniello descrive a chiare lettere quale sia stata l’attinenza tra l’Imperatore ed il Cristianesimo, prima e dopo Ponte Milvio e quanto la frequentazione (e si potrebbe anche aggiungere “l’amicizia”) con Eusebio di Cesarea abbia influito non tanto sulla sfera dell’azione politica dell’Imperatore, quanto su quella intima.  
Ponte Milvio è molto leggenda rinascimentale (Raffaello docet): secondo una delle tradizioni, prima della battaglia Costantino avrebbe visto in cielo (o sognato secondo la versione di Eusebio) una croce con accanto la scritta infuocata “In hoc signo vinces” – con questo simbolo tu vincerai. Costantino, il cui esercito era fortemente intriso di presenza cristiana fece precedere le truppe dal labaro imperiale con le lettere XP (Chi – Ro ovvero le prime due lettere greche della parola CHRISTOS) sovrapposte.  Fatto sta che l’Imperatore Massenzio venne sconfitto perdendo la vita e l’Impero d’Occidente fu nuovamente riunificato sotto un’unica insegna.
La leggenda vuole che quello fosse il momento topico per quanto riguarda la conversione al Cristianesimo. La realtà storica è ben diversa. È indubbio che la nuova religione ebbe un forte impatto nella coscienza dell’Imperatore che peraltro si convertì  solo in fin di vita , ma è anche indubbio che Costantino non venne mai meno al proprio compito di essere l’Imperatore di tutti i romani.
La vicinanza con Eusebio, vescovo ideologicamente vicino agli ariani che divenne il biografo del Sovrano ed al quale si deve certamente una forte influenza culturale sull’Imperatore, non gli impedì mai di avere la necessaria lucidità  per separare i fatti di coscienza dall’azione politica. Ne è prova la risolutezza con la quale diresse il Concilio di Nicea, che terminò con la sconfitta proprio di Ario e di Eusebio di Nicomedia. L’azione politica di Costantino è volta al benessere dell’Impero, che egli concepisce (e ciò è un suo grande merito) non solo in senso multietnico, ma anche culturalmente poliforme. Egli di certo è conscio della componente cristiana in rapida  ascesa, ma è per contro consapevole dell’ancora fortissimo peso della fazione di tipo tradizionale legata ai riti ed al mondo pagano.
Alla luce di questo anche l’Editto di Milano si può leggere in un’altra ottica.
Non si tratta solamente di un moto di coscienza del Sovrano, ma di vera e propria azione politica. Riconoscendo la libertà di culto ai cristiani, egli ufficializza la loro posizione all’interno dell’Impero e cerca di accoglierli nella grande famiglia della Romanità. Tanto è vero, come lo stesso Ianniello sottolinea, che l’Imperatore continuerà a presenziare ai riti ufficiali dello Stato, riti naturalmente di tipo pagano.
In realtà pare ormai abbastanza certo che attraverso l’Editto di Milano, Costantino e Licino (l’Imperatore di Oriente) si fossero adoperati per rendere effettivo l’Editto di Galerio del 311, nel quale si poneva fine alle persecuzioni di Diocleziano.

Figura di primissimo ordine sia per quanto riguarda la politica che il valore morale, Costantino riesce a rallentare la corsa verso il disfacimento dell’Impero Romano, ormai avviato inesorabilmente sul viale del tramonto. Ma ovviamente non può arrestarla. Nel IV secolo dopo Cristo, ormai Roma aveva fatto il suo tempo. Era tempo di nuove realtà e non poteva un singolo soggetto, per quanto grande fosse, impedire alla storia di fare il proprio corso.